Il Movimento 5 Stelle sta lottando dal 2013 per l’introduzione in Italia del salario minimo.
All’inizio della XVIII Legislatura, la senatrice Nunzia Catalfo ha presentato un disegno di legge sul tema (A.S. 658), a cui ne è seguito un altro, aggiornato, depositato ad aprile 2021 (A.S. 2187). Secondo questa proposta, per essere “sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”, come prevede l’articolo 36 della Costituzione, la retribuzione non può essere inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore di riferimento e stipulato “dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Questa precisazione è dovuta al fatto che esistono circa mille contratti depositati al Cnel di cui il 37,5% sono firmati da associazioni fittizie.
Noi crediamo che la retribuzione minima di un lavoratore non possa scendere sotto i 9 euro lordi all’ora, cifra a cui, secondo l’Inps, non arrivano 4,5 milioni di lavoratori. Per andare incontro ai datori di lavoro a far fronte all’aumento dei costi, la nostra proposta prevede la detassazione degli incrementi retributivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro per almeno un triennio.
“Il salario minimo aumenterebbe la disoccupazione e il lavoro nero”. Mai più grande sciocchezza è stata detta. Eppure i detrattori del salario minimo non fanno altro che criticare in questo senso la misura. Ma i fatti, gli studi, dicono altro.
Di recente, l’Università di Harvard ha evidenziato che in Germania, grazie a questo provvedimento, sono stati messi fuori mercato gli impieghi pagati meno di 8,5 euro l’ora (la soglia stabilita nel gennaio 2015, poi aumentata a 9,19 quattro anni dopo e che ora il governo di Olaf Scholz ha portato a 12 euro) e sono cresciuti sia il Pil sia il numero di occupati.
Intervistato da Presa Diretta (Rai3), Florian Moritz della Deutscher Gewerkschaftsbund, la maggiore confederazione sindacale della Germania, ha affermato: “Con l’introduzione del salario minimo a 8,50 euro abbiamo visto che per molte persone lo stipendio è aumentato del 20%: questo significa che avevamo davvero un problema enorme, soprattutto nell’ex Germania dell’Est e in certi comparti produttivi”.
In tale contesto, non vanno dimenticati gli studi empirici di David Card, professore di Economia del lavoro all’università di Berkley e vincitore del Premio Nobel per l’Economia 2021. Nel 1995, Card studiò per la prima volta l’effetto del salario minimo sugli impatti occupazionali, dimostrando che l’introduzione del salario minimo non aveva un effetto negativo sull’occupazione.
Ad oggi, come ho avuto modo di dire più volte (Leggi qui), l’Italia è uno dei pochi paesi Ue a essere sprovvisti di una normativa sul salario minimo, insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e in parte Cipro. Il 22 febbraio 2022, in Spagna, il governo ha approvato l’aumento da 965 a 1.000 euro lordi mensili che avrà effetto retroattivo dal 1° gennaio; il giorno dopo, in Germania, l’esecutivo ha dato il via libera all’innalzamento del salario minimo a 12 euro l’ora a partire da ottobre 2022.
Come testimoniato dal rapporto Eurostat In-work poverty in the EU (marzo 2018), oggi nel nostro Paese l’11,7% dei lavoratori dipendenti riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali contro una media Ue del 9,6%. A ciò si aggiungono i dati sulle prospettive di vita: per il Censis, 5,7 milioni di giovani precari, neet e working poor rischiano di avere nel 2050 pensioni sotto la soglia di povertà.
Con il salario minimo proteggiamo le categorie più a rischio di emarginazione e sfruttamento, prime fra tutte giovani e donne.
Dovrebbe essere contro ogni sentimento umano pagare un salario che non permette al lavoratore di condurre una vita dignitosa e ha il fondamentale ruolo di far aumentare le entrate dei lavoratori con i redditi più bassi: un aumento del loro reddito si tramuterebbe quasi totalmente in consumi e non in risparmi. Ciò porterebbe ad un aumento della domanda aggregata e ad un effetto benefico per l’intera economia. Inoltre, con una politica industriale pubblica orientata al raggiungimento di obiettivi di medio/lungo periodo si arriverebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro.